Lion
Manca qualcosa. Sì, manca una prospettiva, una profondità di campo in questo film.
Negli anni ’70 nessun regista avrebbe raccontato una storia personale immersa in una tragedia del sub-continente così come si girano i serial-TV.
Appunto senza prospettiva, sociale o per usare una parolaccia : politica.
Non che questo film ci faccia vedere un’India tutta sentimento ed estasi. Si sofferma in effetti qua e là lasciandoci intuire, ma sono solo citazioni senza una prospettiva.
È questa assenza che ho trovato la nota più interessante.
Quello che non c’è è davvero il motivo per veder questo film.
E capire che non si tratta di dimenticanza, scelta commerciale, superficialità. No, quello che non c’è nel film è quello che non c’è più dentro la visione del mondo occidentale.
L’occidente sente di non essere più dentro la Storia. Sente che il proprio destino non è più nelle mani degli uomini, cioè non è più politico, appunto.
Tuttavia nel film qualcosa si tenta di ….. Ma è troppo poco o troppo laterale.
La scelta di lasciare nella marginalità le questioni di ” etica della responsabilità ” che affiorano dalle parole della mamma adottiva che , pur potendo avere figli, sceglie con il marito di adottare bambini poveri, perché nel mondo c’è troppa sovrappopolazione e povertà.
Invece di partire da immagini fotografiche, di indugiare sugli effetti bokeh, il film doveva partire da lì e narrare due storie: quella della famiglia adottiva e quella di Lion. Tenta di farlo, ma in modo insignificante.
Quello che rimane allora è lo smarrimento dello spettatore, la sua impotenza e la sua insignificanza di Uomo, privato della possibilità di incidere, anche solo idealmente, sulla Storia.
Cosa rimane? Rimane l’India con quei tramonti sempre fuligginosi, tanto silenziosa quarant’anni fa quanto rumorosa e caotica oggi.
Rimangono i paesaggi primitivi australiani. Quel mare e quella giungla così primordiali per raccontare una storia di un sentimento altrettanto primordiale: la “spinta” per tornare a “casa”.