Revolutionary road
C’è troppo spesso un bicchiere di wiskies tra le mani di Frank mentre parla senza saper bene quel che dice, leggero e spensierato come solo l’America, quella America degli anni ’60, ha saputo essere.
Ed April, con l’aria malinconica, lo ascolta come un bel disco.
Se ne stanno dentro a quel vestito ormai liso e sgualcito che é la famiglia, utilizzandolo come un qualsiasi altro oggetto.
Ma la famiglia purtroppo non può essere “utile”, al pari di un’auto o di un impiego.
Da qui la tragedia che vi si consumerà e che metterà in scena il doloroso vuoto lasciato nelle loro vite da relazioni inautentiche, da valori obsoleti e distorti, da inganni esistenziali, da solitudini ed abbandoni.
Non c’è traccia di amore in questo romanzo. Forse al più uno sguardo compassionevole per April e per John, ma niente altro.
Yates ci trascina nell’angoscia, emotiva ed esistenziale, in una dimensione che forse conosce fin troppo bene e che l’Occidente può finalmente guardare, ma solo quarant’anni dopo la pubblicazione.
Ah……dimenticavo. Il destino fa le burle a Frank. Lavora per un colosso dell’informatica, roba grossa, tratta calcolatori con cui controllare sempre meglio i processi. Peccato che il mito del controllo del mondo non preveda però che lui non riesca a gestire il suo di mondo, ovvero la sua famiglia.
Yates anticipa gli esiti del “dominio della tecnica” così come oggi più chiaramente va delineandosi.